16.06.2021
Che cosa farebbero Giuseppe Garibaldi o Leonardo Da Vinci se soffrissero di Parkinson e si incontrassero in videoconferenza? Non è un paradosso, ma è la chiave di volta in tempi di Coronavirus di una seduta di teatro-terapia dedicata a pazienti affetti dal disturbo neurologico. A guidarli, come attori di uno spettacolo, è la dottoressa Emanuela Grazzini, psicoterapeuta biosistemica esperta in EMDR, che ha indossato i panni di “regista” del progetto “Parkofmind, Parkinson 2.0”: un percorso di 12 sedute pensato per fronteggiare l’isolamento imposto dalla pandemia fornendo un supporto psicologico agli iscritti all’associazione Ravenna Parkinson e ai loro cari. “Andare la mattina al panificio, fare lavoretti nell’orto o nel giardino erano obiettivi raggiungibili facilmente, che tuttavia nell’ultimo anno sono stati ostacolati dal Covid e dal lockdown - spiega l’esperta -. Ne ha risentito lo stato di umore delle persone costrette in casa, in particolare se affette da patologie. Ho creato quindi uno strumento di stimolazione a distanza che potesse ravvivarli, tenerli occupati o toglierli da una situazione di apatia e noia che non influiva positivamente sulla malattia”. Da qui l’idea di un “parco della mente”, per sperimentare attraverso le webcam di computer e telefonini i benefici del teatro con l’obiettivo di “esplorare le risorse psico emotive della mente collegandole con il corpo attraverso attività strutturate”.
Prima della pandemia l’esperienza era in presenza. Così l’emergenza sanitaria ha offerto l’occasione per testare le potenzialità della tecnologia sugli effetti benefici del percorso terapeutico sui partecipanti, immersi ciascuno a casa propria in una narrazione collettiva in diretta video. “Dovevano risolvere le proprie difficoltà, elaborare in gruppo particolari impasse emotivi, simulare situazioni di freezing, sdrammatizzare l’impossibilità di ottenere qualcosa dal proprio corpo…”. E qui entrano in scena i personaggi storici: “Abbiamo inventato ruoli che spaziavano da Napoleone, Garibaldi e altre figure inventate da loro - continua la psicologa -. Io ero Leonardo Da Vinci, una signora ha scelto Margherita Hack. Ognuno li avrebbe dovuti rappresentare davanti agli altri mettendoci del suo, dando risposte legate al proprio vissuto”.
Storia, ma anche natura. E così la dottoressa Grazzini si è trasformata in un panda alla guida di un mezzo con a bordo i pazienti-animali, in viaggio attraverso una foresta irta di ostacoli: un serpente velenoso, un pozzo di acqua melmosa, e la meta… un paradiso terrestre. Paura, rabbia, vergogna, le emozioni tipiche del vissuto di una persona malata di Parkinson sono emerse dai movimenti del corpo impegnato a mimare l’animale scelto. “Sono gare o giochi cognitivi - continua la psicologa - che forniscono degli input per creatività, immaginazione e capacità di astrazione e ragionamento, finalizzati a stimolare funzioni cerebrali un po’ sopite o addormentate”.
Tra gli “attori” non ci sono solo pazienti, ma anche i familiari. Da loro bisogna partire per un progetto terapeutico, puntualizza la specialista. “Se noi con il concetto di presa in cura ci fermiamo solo davanti alla patologia parkinsoniana e non consideriamo parimente la situazione di chi assiste i malati facciamo un lavoro parziale, perché il caregiver non è solo l’aiuto o l’appoggio ma è il fruitore della qualità di vita, del clima e dell’atmosfera di casa che può creare effetti positivi e negativi sulla cura a seconda di come sta”.
La routine e il rischio di cadere in una quotidianità spenta hanno messo a dura prova le famiglie durante il lockdown. C’è chi ha vissuto la pura dei primi momenti, quando ancora si cerca di elaborare la situazione; la rabbia di fronte a una malattia che ha aspetti catastrofici, e che cambia la vita… emozioni e dolori interiori che devono essere elaborati per non essere trasmessi. “Sono proprio i caregiver a dover cambiare la routine del malato - conclude la dottoressa -. Bisogna fornire loro strumenti per diversificare il quotidiano, creare un micro-mondo dinamico positivo e divertente, all’interno di un mondo chiuso. Alla fine, saranno loro, con le proprie abilità tecniche e logistiche, a trasmettere quella positività che incide tantissimo sulla percezione di una persona malata, andando a potenziarne le risorse”.